Vi regalo un capitolo della mia tesi di laurea. Buona lettura e per approfondimenti non esitate a chiedere.
Come ci ricorda Andrew Keen, in
1984 di George Orwell, il Grande Fratello insiste affinché due più
due faccia cinque, trasformando un’affermazione assolutamente
scorretta nella verità ufficiale e autorizzata dallo Stato (Keen,
2009). Oggi, tra i numerosi Grandi Fratelli che ci osservano e di cui
nulla sappiamo, ce n’è uno con cui chiacchieriamo ogni giorno: è
nostro amico1,
nostro confidente e sempre pronto ad aiutarci. Ovviamente, stiamo
parlando di nuovo del motore di ricerca Google.
Keen ci introduce in modo più
serio a quello che si è cercato di far passare per un aspetto
spassoso; infatti Keen afferma che “ogni giorno, attraverso decine
di milioni di domande, riversiamo nell’onnipotente motore di
ricerca i nostri più intimi segreti. Google conosce le nostre
abitudini, i nostri interessi e i nostri desideri meglio dei nostri
amici, dei nostri cari e del nostro psicanalista messi insieme. Ma a
differenza di quello di 1984, il nostro Grande Fratello esiste per
davvero. Dobbiamo fidarci del fatto che non divulgherà i nostri
segreti, ma la nostra fiducia […] è già stata più volte tradita”
(Keen 2009, pp. 42-43). E mentre riversiamo noi stessi nel motore di
ricerca, quest’ultimo in cambio di numerosi servizi «gratuiti»,
guadagna miliardi di dollari grazie alla pubblicità che le nostre
ricerche hanno contribuito a creare. Alla fine quanto stiamo pagando
davvero quei servizi gratuiti?
Non si può rispondere al
momento a una domanda del genere, ma si può portare un esempio
paradigmatico del nostro affidarci in modo cieco a uno sconosciuto e
anonimo motore di ricerca, che a onor del vero nel caso di seguito
considerato non è Google ma AOL2.
“Tutto ebbe inizio con un
dilemma morale. «È giusto fare sesso al primo incontro con un
amante virtuale?» domandò al motore di ricerca il 17 aprile 2006.
Aveva un problema: era sposata ma innamorata di un altro uomo, come
confessò al motore di ricerca il 20 aprile. Una settimana dopo, si
decise a incontrare il suo amante virtuale” (Keen 2009, p. 203).
Tra il primo marzo e il 31
maggio del 2006, questa signora statunitense aveva esposto i suoi
timori, le sue paure e le sue confidenze al motore di ricerca AOL e
come sottolinea Keen “aveva aperto il suo cuore alla tecnologia,
trasformando il motore di ricerca in una finestra sulla sua anima.
[…] I pensieri e i sentimenti riversati nel motore di ricerca AOL
erano quelli di una donna che si sforzava di mantenersi lucida in un
momento di disperazione” (Keen 2009, p. 204).
Nel periodo considerato la
signora aveva digitato quasi 3000 domande di varia natura che forse
non avrebbe osato rivolgere a nessuno dei suoi più intimi
conoscenti: sul proprio corpo, sulla sessualità maschile, sulla
dipendenza da Internet e, addirittura, sulla giustizia divina (Keen,
2009). “Era una specie di Madame Bovary digitale, tranne che per un
piccolo particolare: quanto aveva inserito nel motore di ricerca AOL
non era stato scritto per essere pubblicato. Dietro le sue
confessioni non c’era alcun Flaubert. Nessuno avrebbe dovuto
leggerle. Si fidava ciecamente del motore di ricerca. Costretta a
barcamenarsi fra il marito che russava, i figli invisibili, il
fallito adulterio e lo sforzo per comprendere la parola di Dio, lo
considerava il suo unico confidente, la sola certezza che non
l’avrebbe mai abbandonata. Quanto si sbagliava!” (Keen 2009, p.
204)
Ciò che la signora aveva dato
per scontato fu all’origine di un contrappasso dantesco: solo che
non Dante, ma la Rete divenne il suo cantore. Tutto ciò che la
signora aveva digitato sul motore di ricerca divenne di dominio
pubblico. La signora non aveva un nome, ma aveva un numero 711391:
l’ultima cosa che avrebbe potuto aspettarsi era che ella sarebbe
stata la vittima di uno dei primi disguidi di una cultura della
sorveglianza digitale nella quale può accadere che “le nostre
paure più profonde e le nostre emozioni più intime vengano svelate
al mondo intero senza che lo sappiamo o che qualcuno ci abbia chiesto
il permesso” (Keen 2009, p. 205).
Per i curiosi l’identità e
l’intimità della donna non avevano davvero più segreti: di lei si
conoscevano i difetti, i complessi, la natura dei suoi dilemmi
teologici, ecc. (Keen, 2009). La vicenda fu definita dalla rivista
Slate in
senso orwelliano: ma, forse, il Grande Fratello di Orwell era
infinitamente più stupido di questo nuovo Grande Fratello
tecnologico.
L’inaugurazione di questa
vicenda da 1984 è del 2006, precisamente del 6 agosto quando AOL si
lasciò sfuggire i dati di ricerca di 658 mila persone, compresa la
signora 711391 (Keen, 2009). Quella sera, i pensieri più
inconfessabili degli utilizzatori di AOL furono alla mercé di
chiunque: dall’aborto a come uccidere la moglie, dalla bestialità
alla pedofilia (Keen, 2009).
Ciò che più dovrebbe lasciare
perplessi della vicenda è che i ricercatori di AOL trasformarono
quei dati in un giocattolo intellettuale di loro proprietà, dal
momento che le ricerche che noi facciamo su Internet non sono nostre,
ma appartengono ai proprietari del servizio che ne dispongono
l’archiviazione, l’analisi e la conseguente trasformazione in
profitto (Keen, 2009). La questione della proprietà legale delle
parole inserite nei motori di ricerca resta oscura e non appena i
dati furono immessi sulla rete la privacy di centinaia di migliaia di
persone scomparve nel nulla e tutti ebbero la possibilità di
esaminare questo enorme database di intenzioni private (Keen, 2009).
“Fu un po’ come se la Chiesa
cattolica avesse spedito in giro per il mondo confessioni di 658 mila
fedeli. O se il KGB, la polizia segreta sovietica, avesse aperto i
suoi file di sorveglianza per trasmetterli alla TV nazionale. Le
informazioni contenute nei file di AOL sono una sorta di Memorie
dal sottosuolo del
XXI secolo, una raccolta di dati che svelano i nostri lati più
vulnerabili, privati, inconfessabili, umani (Keen 2009, pp. 206-207).
Oltre a questo caso di perdita
di dati dei motori di ricerca, molto comuni sono i furti d’identità,
la clonazione di carte di credito, l’appropriazione di dati
finanziari e tutto ciò che riguarda i nostri dati sensibili online.
La sicurezza di questi sistemi è stata violata numerose volte e non
sono pochi i casi di utilizzazioni fraudolente di tali dati. Negli
Stati Uniti dei 10 milioni di casi di furto d’identità all’anno
stimati, ne viene scoperto soltanto uno su settecento (Keen, 2009).
Fin qui si è detto dei casi in
cui i nostri dati vengono rubati o immessi su Internet senza il
nostro permesso: cosa dire invece della mole di informazioni che
regaliamo gratuitamente di nostra spontanea volontà? Infatti, “nel
mondo del Web 2.0, dove ogni singola ricerca è a disposizione delle
grandi società e delle agenzie governative, il diritto alla privacy
sta diventando un concetto antiquato. Nel mondo reale possiamo
stracciare estratti conto e bollette del telefono, eliminare lettere
e appunti privati, distruggere foto imbarazzanti e tenere sotto
chiave i nostri dati medici. Ma una volta immessi su AOL o su Google,
i nostri documenti privati non scompariranno più dalla Rete. Google,
Yahoo! e AOL s’impadroniscono dei dati e tengono traccia delle
nostre ricerche, dei prodotti che acquistiamo e dei siti sui quali
navighiamo, il tutto senza alcuna responsabilità legale” (Keen
2009, p. 212).
Il prezzo da pagare per tutti i
servizi gratuiti della Rete è la svendita di noi stessi a fini di
marketing, profilazione e tracciamento dei nostri gusti e delle
nostre preferenze; tanto più è ampia la base dati sul nostro conto,
tanto più efficace sarà la quantità di dati utilizzata dagli
inserzionisti per creare pubblicità mirata sui gusti degli utenti.
Tutto questo è possibile grazie all’inverosimile fiducia riposta
dagli utilizzatori di tutti questi servizi nei servizi stessi e nella
compagnia che li eroga.
Lo strumento più utilizzato per
tenere traccia di tutta la nostra attività online ha un nome
innocuo, cookie3:
si tratta di un file di testo di dimensioni minuscole che viene
registrato sul nostro disco fisso non appena accediamo a un sito web.
Andrew Keen ci fornisce un’ottima spiegazione del loro
funzionamento: “Com’è possibile che Google e AOL riescano a
impadronirsi di informazioni tanto dettagliate? Grazie ai piccoli
pacchetti di dati nascosti nei programmi di navigazione che passano
sotto l’innocuo nome di cookie,
i quali stabiliscono
un numero identificativo unico riferito al nostro hard disk
permettendo ai siti web di registrare con precisione tutto ciò che
facciamo online. Questi pacchetti di dati rappresentano un patto
faustiano con quel diavolo che è la rete. Ogni volta che finiamo su
una pagina web, si attiva un cookie
che riferisce al sito
chi lo sta visitando. I cookie
trasformano le nostre
abitudini in dati. Per gli inserzionisti e i responsabili del
marketing sono vere e proprie miniere d’oro. Memorizzano i nostri
siti preferiti e il numero delle nostre carte di credito, ricordano
tutto ciò che abbiamo messo nei carrelli elettronici e prendono nota
dei banner pubblicitari sui quali abbiamo cliccato. E sono ovunque
(Keen 2009, p. 213).
Quel che appare paradossale è
la natura del rapporto utente-sito web: l’utente, in buona fede,
entra nel sito e fa ciò che deve senza curarsi che ogni sua azione
sarà monitorata, mentre il sito web raccoglie e immagazzina tutti i
dati del visitatore. Esistono modi per evitare lo spionaggio della
nostra attività online ma sono fin troppo complicati per l’utente
medio: d’altronde l’aspetto fondamentale di Internet è la sua
interattività immediata (proprio perché non mediata), il suo
velocizzare le nostre azioni, il suo renderci sempre tutto
disponibile a portata di click. L’adozione di contromisure
inficerebbe sulla nostra velocità e naturalezza online e, molto
probabilmente, se la maggior parte degli utenti fosse in grado di
adottare tali contromisure i servizi più cari alla stragrande
maggioranza degli utenti diventerebbero a pagamento. Perché è raro
che qualcuno si lasci andare alla beneficenza, anche su Internet: è
questa l’essenza del rapporto faustiano tra utente e Rete che
descrive Andrew Keen.
Chi rinuncia ai biscottini
rinuncia all’email gratuita, all’account Facebook, alla home page
personalizzata di Google e, in generale, a tutti quei servizi in cui
è necessario fornire i nostri dati.
Dopo soli quattro giorni dalla
messa online dei dati di AOL, Amazon presentò un brevetto con cui
chiedeva l’autorizzazione per un sistema di archiviazione dei dati
sensibili degli utenti così da poter appropriarsi delle esperienze
di acquisto online dei propri utenti (Keen, 2009).
Chi è responsabile di tutto
questo? In molti casi siamo proprio noi stessi come ci fa notare Keen
quando afferma che “a sorvegliarci non sono soltanto gli
aggregatori di dati, che agiscono dall’alto. Siamo noi stessi, con
la nostra ossessione autoreferenziale, a contribuire dal basso
all’epoca della sorveglianza.
L’infatuazione del Web 2.0 per
i contenuti user-generated
è il sogno di ogni
data miner, i software cacciatori di dati. Più informazioni diamo di
noi nella nostra pagina di MySpace, nei video che carichiamo su
YouTube, nei nostri blog o in quelli degli altri, più diventiamo
vulnerabili di fronte ai ficcanaso, ai ricattatori, ai voyeur e ai
pettegoli. La natura confessionale della cultura user-generated
sta facendo esplodere
a livello culturale una tendenza generalizzata a rivelare i propri
gusti personali, sessuali e politici” (Keen 2009, p. 215).
Non dovrebbe quindi sorprendere
che la CIA e altri servizi segreti stiano investendo nelle tecnologie
del Web 2.0 (Keen, 2009).
Questo è il prezzo più alto
della democratizzazione della comunicazione online e rappresenta
l’implosione del nostro diritto alla privacy (Keen, 2009). “In
questo panottico digitale, gli insegnanti controllano gli allievi,
gli amministratori universitari controllano gli studenti e ciascuno
controlla i propri pari. In 1984, Orwell dipinge una società nella
quale vige un sistema di controllo verticale dall’alto al basso e
il Grande Fratello vede tutto, sa tutto, controlla i nostri
movimenti, ascolta le nostre conversazioni e legge nelle nostre
menti. Il Web 2.0 rappresenta la democratizzazione di quell’incubo;
se nel mondo orwelliano esisteva un unico leader onnisciente, oggi
tutti noi possiamo essere il Grande Fratello. È sufficiente avere
una connessione a Internet” (Keen 2009, pp. 216-217).
È chiaro quindi che dalle
parole che inseriamo nei motori di ricerca alle nostre descrizioni
sui siti sociali, la rivoluzione del Web 2.0 sta offuscando il
confine tra ciò che è pubblico e ciò che è privato (Keen, 2009).
Con l’estendersi del social
networking sempre più
persone offriranno liberamente e spontaneamente innumerevoli
proiezioni di sé sulla Rete, proiezioni pubbliche e aperte a tutti
(Antinucci, 2009). Possiamo immaginare un futuro non troppo lontano
in cui software tecnologicamente sofisticati si sostituiranno agli
psicologi della personalità o agli analisti di mercato per tracciare
i profili psicologici e di marketing di sempre più persone
(Antinucci, 2009).
Concludendo, si può dire di
essere ritornati alla condizione del villaggio, della tribù o del
piccolo paese in cui tutti i nostri comportamenti erano pubblici, dal
momento che la scala ridotta permetteva a tutti di tenere sotto
controllo tutti gli altri (Antinucci, 2009). Quello che la grande
metropoli regalava in termini di privacy è destinato a scomparire
pian piano. Basta uno smartphone collegato a Internet con il GPS4
attivo affinché i nostri amici su Twitter o su Facebook sappiano in
qualunque istante la nostra geolocalizzazione. Quest’ultima, guarda
caso, è proprio la nuova frontiera del marketing.
Il libro in questione è Keen
A., 2007, Dilettanti
.com. Come la rivoluzione del Web 2.0 sta uccidendo la nostra cultura
e distruggendo la nostra economia,
De Agostini Editore, Novara, 2009.
1
GIYF è l’acronimo di Google
is your friend, in
italiano Google è
tuo amico: tale
acronimo, molto in voga sulla Rete, sta a significare che prima di
chiedere a qualcuno qualcosa è necessario che si chieda prima al
motore di ricerca Google di aiutarci. Nelle ultime settimane è
stato lanciato addirittura un sito http://lmgtfy.com/ Let
me Google it for you, cioè
te lo cerco io su Google, che riporta un link in cui è
rappresentata una ricerca in cui colui che aveva chiesto aiuto verrà
preso in giro in modo scherzoso non appena apparirà la scritta “Era
così difficile?”, come dire la ricerca potevi farla anche da
solo.
2
Nel 2010 AOL e Google hanno stretto una partnership volta a
consolidare le rispettive posizioni e oggi, usando AOL Search
possiamo notare la dicitura Enhanced
by Google, cioè
ottimizzato da Google: insomma, di nuovo il cane che si morde la
coda.
3
In inglese significa biscotto.
4
Global Positioning System, sistema di posizionamento globale
mediante satellite.
2 commenti:
Ho cercato di fare il collegamento che mi dicevi nel tuo commento odierno. Spero di esserci riuscito.
Letto questo tuo post riguardante il Grande Fratello" mi sono venuti i brividi. Che faccio chiudo il pc?
La mia fortuna consiste nel fatto che non ho segreti e che soprattutto ho 82 anni, quindi che vuoi che me ne importi.
Aldo,
mi dispiace ma i link al mio sito ancora dirottano verso il vecchio. Comunque dai non è importante.
Tornando al post...
L'importante, come dico sempre, è saperle certe cose.
Poi ognuno è libero di fare come meglio crede.
Tu non aver paura! e fai bene a dire nun ce ne po' fregà de meno!
:)
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